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Sul mio fare e intendere poesia: una cronistoria[1]

di Emanuele Marcuccio

Collage dei miei libri pubblicati

Scrivo poesia dal 1990 (per la precisione, dal 1989 ho iniziato con degli esercizi); nell’agosto 2000 ventidue sono state pubblicate dalla milanese Nuovi Autori nel volume antologico Spiragli 47 e nel marzo 2009 è uscita la prima raccolta[2].

Non scrivo in rima per scelta, essa per me blocca o vincola l’ispirazione poetica, su più di centocinquanta poesie, ne ho scritto solo tre interamente in rima, e in rima libera. In altre, se la rima raramente è presente, è solo spontanea; la rima libera non spontanea l’ho utilizzata soltanto in una lirica per puro sperimentalismo stilistico.

Nella mia poesia ci sono tre punti fermi: la spontaneità, la musicalità, la fluidità del verso. Il mio ideale poetico si esprime nell’essere semplice e al tempo stesso profondo; cerco anche la musicalità del verso, cosa oltremodo difficile, se non si scrive in rima.

Quando uso dei termini che possono apparire un po’ antiquati, degli arcaismi, lo faccio unicamente per la loro insita musicalità, non perché io voglia servirmi di un linguaggio anacronistico. Nelle mie poesie alcune volte ho usato delle parole con sillaba tronca (applicando delle apocopi) come “cuor”, “cor”, “duol”, “dolor”, altre volte non le ho usate; di conseguenza, ogni mio verso, ogni mia parola non sono lì nella pagina in maniera casuale, ma seguono un fine musicale, sono scelti per una maggiore scorrevolezza nel ritmo. Ad esempio, nella lirica “Indifferenza”[3] ho adoperato sia l’espressione “duol”, sia l’espressione “dolor” e, nella lirica “Là, dove il mare...”[4] ho cercato di far sì che il ritmo si alzi e si abbassi, quasi ad imitare il flusso e il riflusso delle onde del mare e quelle apocopi sono state scelte per mantenere quel ritmo e quel particolare suono.

Nel fare poesia seguo una struttura su due fasi fin dal 1990. La prima è quella che io chiamo “primo fuoco dell’ispirazione”, la quale può giungere in qualsiasi momento con l’affiorare alla mente dei primi versi o di uno solo; quindi, li appunto su di un qualsiasi foglio o pezzo di carta (Giuseppe Ungaretti appuntava le sue poesia anche in trincea utilizzando la carta che avvolgeva le cartucce) e, mentre scrivo, penso i successivi versi da vergare su carta. La seconda e ultima fase si riferisce alla ricopiatura nel quaderno, aggiungendo a volte, anche dei nuovi versi o parole; in seguito, durante la correzione di bozza e in previsione della pubblicazione potrei operare dei piccoli cambiamenti variando o sostituendo qualche parola, la disposizione dei versi, a volte anche gli accapo perché, quello che cerco, oltre alla freschezza della spontaneità che è la prima cosa, è la fluidità e la musicalità del verso, senza quasi mai usare la rima, servendomi di giochi fonetici delle consonanti e coloristici delle vocali giungendo in alcune poesie alla metrica spontanea (come ha notato il critico letterario Luciano Domenighini, nella sua recensione[5] sulla silloge Per una strada e, in maniera più articolata, nell’inedito saggio[6] critico-antologico), senza mai stravolgere il senso e l’ispirazione primigenia. Metrica spontanea nel senso di lassa e non di strofa, la quale, non potrà mai essere spontanea. Precisamente, da ca. sette anni, dopo aver riportato la poesia su un foglio di carta, non la ricopio subito nel quaderno (un quaderno dalla copertina nera, che utilizzo fin dal dicembre 1999), ma lascio che passi anche una settimana o un mese mettendo il foglio in mezzo al “quaderno nero”, come se volessi far “decantare” la poesia.

Diverso è stato il caso della unica poesia[7] scritta in rima non spontanea, in cui dapprima è arrivato il “primo fuoco dell’ispirazione” con i primi due o tre versi, successivamente mi sono dedicato alla ricerca della rima e al tipo particolare di rima (forse la più difficile, quella incatenata, senza però impiegare la metrica sillabica quantitativa, quindi, in rima libera), alla proprietà di linguaggio ovvero quello dell’italiano antico (il volgare trecentesco di ascendenza stilnovista) con l’applicazione delle figure retoriche più adatte. Questa volta tre fasi, e sono stati sufficienti soltanto due giorni; scritta nel ‘94 mentre mi preparavo agli esami di Maturità Classica e vocaboli danteschi frullavano impazziti nella mia mente, bisognava farli uscire, quasi per un bisogno fisiologico.

Utilizzo le figure retoriche e cerco di impiegarle in maniera spontanea (credo che non sia possibile scrivere poesia senza utilizzare almeno una figura retorica), ho utilizzato anche lo zeugma, presente molto in Dante. La figura retorica che uso di più è però l’enjambement, mi piace molto l’anafora e indulgo all’elisione, sempre per esigenze di fluidità del verso e musicalità.

Una poesia, “Per una strada”[8], dapprima l’ho appuntata su uno scontrino della spesa, poiché mi trovavo per strada; trattasi di una poesia sulla propria ispirazione poetica. Da questa ho ricavato il titolo della prima raccolta, pubblicata il ventisei marzo 2009 dalla ravennate SBC. Cito dalla prefazione che ho dovuto scrivere io stesso (in caso contrario il mio libro ne sarebbe rimasto privo):

 

«Con questa mia, apparentemente semplice poesia, scritta dapprima su un semplice scontrino, poiché mi trovavo per strada e non avevo null’altro su cui scrivere, ho cercato di esprimere proprio il processo misterioso della mia ispirazione poetica.

E pensare che, all’inizio non l’ho compreso nemmeno io il suo significato profondo.

Quanto mi sembrarono quasi insignificanti quei versi, e invece, mi sono accorto, con mia grande sorpresa, che nascondevano il significato stesso della mia ispirazione furtiva e svelta, che passa e vola via e, se non l’afferro e la trattengo nel mio cuore con i miei versi che metto sulla carta, passa e vola via, e non si sa più dove mai sia.»[9]

 

A partire dal 2013 abbandono la punteggiatura dopo due esempi isolati nel 2010 con le liriche “Trascinarsi”[10] e “Supersonica”[11]. Attualmente la mia poesia è alla ricerca dell’essenzialità e dell’estrema sintesi, cadono, dunque, anche le complicazioni sintattiche, le pause sono sostituite dagli accapo e dal doppio accapo, in cui rilevo maggior respiro. Così, dopo l’abbandono della punteggiatura ho abbandonato anche l’incipit con lettera maiuscola, a riprova di ulteriore sintesi ed essenzialità, come a sottintendere un verso e tutti i versi precedenti, quasi in un continuo richiamo tra explicit e incipit. Tuttavia, come ha già rilevato in un suo saggio[12] il critico Domenighini, non credo ci sia rivoluzione ma solo evoluzione; rari prodromi di estrema sintesi (eccettuato l’abbandono della punteggiatura) sono rilevabili nella mia produzione precedente, soprattutto nella silloge Per una strada.

A partire dal 2015, col senno di poi, ho sentito il bisogno di rivedere alcune poesie degli esordi, ovvero scritte tra il 1990 e il ‘96; una operazione di alleggerimento della carica retorica ma senza mai snaturarne l’ispirazione originaria.

Sempre Domenighini ha definito il mio attuale ‘modus poetandi’, con l’espressione di “ermetismo cosmico”. Così si è espresso il critico a riguardo:

 

«“Ermetismo” perché il dettato è a un tempo sintetico e codificato, iniziatico, a tratti sibillino. Certe soluzioni originali e inedite del suo linguaggio poetico d’altra parte, vanno in questa direzione. “Cosmico” perché, rispetto alla sua poesia di una volta, si inoltra in una dimensione cosmica, spaziale, astrale, ultraterrena.»

 

Mentre il critico letterario Lucia Bonanni così si è espresso in un suo saggio sulla mia poesia:

 

«La sua ispirazione poetica è “un’ispirazione drammatizzata” in cui egli si apre agli stimoli che gli giungono dall’esterno come ai luoghi della mente e alle nebulose che avvolgono la memoria e il ricordo, regalando sempre felicità al lettore. Il suo lavoro è imperniato sul voler capire fino in fondo i segreti che una strada, la gente, un albero, il mare, il sole, le navi, le case, gli amici e tutte le vicende umane possono trasmettere e rivelare così immediatezza di scrittura e la responsabilità verso l’attitudine dello scrivere. [...] Con i suoi scritti offre senso di appartenenza, incuriosisce, si traspone nell’altro e fa vivere speranze in un modo ricco e profondo. Come afferma Mallarmè “Ogni cosa nel mondo esiste per essere inclusa in un libro” e Marcuccio nei suoi libri, oltre a se stesso, include l’Umanità intera.»[13]

 

L’essenza della poesia è la sintesi, non intesa nel numero dei versi (anche una poesia lunga deve avere sintesi), nessun verso in più né uno in meno che pregiudichi il suo respiro; deve avere musicalità (non dettata unicamente dalla rima), respiro; se poi eliminiamo anche i luoghi comuni, le frasi fatte, c’è perfetta poesia. Non deve però mancare la spontaneità del “primo fuoco dell’ispirazione”, in caso contrario, tutto si risolverebbe in un freddo artificio formale.

Secondo Domenighini, “Dolore”[14] (la poesia più breve che io abbia mai scritto e che consta di soli due versi) rappresenta il vertice letterario di tutta la raccolta Per una strada, come ha ben evidenziato nel suddetto saggio critico-antologico sulla silloge:

 

«Il distico (di sette, dodici sillabe) in rima, da un punto di vista strettamente letterario, è il vertice di Per una strada. Un distico di ungarettiana brevità, un esempio della complessità formale di questo poeta, ossia di come Marcuccio sappia adunare e condensare in poche parole svariati riscontri metrici e retorici.»[15]

 

Un caso a parte è stata la scrittura del dramma in versi liberi[16], ambientato in Islanda e completato il diciannove aprile 2016, dove, per seguire una trama, non ho potuto conformarmi alla spontaneità, alla facilità dell’immediatezza espressiva, come ho fatto di solito nella mia poesia; la spontaneità però rimane la prima idea, il “primo fuoco dell’ispirazione” che, negli anni ha subito vari ripensamenti e successive modifiche formali. Ho sempre atteso l’ispirazione per scriverlo, non mi sono mai seduto a tavolino pensando - adesso scrivo - e sono trascorsi quasi trent’anni da quell’abbozzo dapprima in prosa del solo primo atto (1989) alla sua stesura definitiva e pubblicazione nel 2017; precisamente sono stati ben diciannove anni di lavoro escludendo i sette complessivi di interruzione.

Dal momento che la poesia fa parte del mio essere, la prosa non è nelle mie corde (preferisco leggerla), non riuscirei mai a scrivere un racconto né un romanzo; ho scelto quindi il teatro e un dramma in versi liberi per cercare di esprimere la mia vena narrativa e, al contempo, continuare a cercare di esprimere la poesia che il cuore mi detta, cesellando il verso, sempre alla ricerca della migliore musicalità e fluidità nel ritmo, nella cadenza e alla lettura. Versi liberi e non certo anarchici, versi di varia lunghezza, sorretti da una diversa metrica, costituita non dal numero delle sillabe o dalla rima ma da assonanze, consonanze, figure di suono e dalle necessarie figure retoriche, da quello che viene chiamato “ritmo semantico”; con tutto il rispetto per i grandi poeti della nostra letteratura, i quali, fino all’Ottocento hanno fatto largo uso di metrica quantitativa, al punto da comprendere che il suo impiego non era più necessario.

E se nella poesia tout court, da tempo ho abbandonato la punteggiatura, sempre alla ricerca di una maggiore sintesi ed essenzialità, nella poesia del dramma non mi è stato possibile farlo, in quanto lo ha richiesto l’ars narrandi, la quale ha dovuto sottostare al dolce giogo dell’ars poetandi.

 

La poesia bisogna ascoltarla e non semplicemente leggerla, bisogna leggerla ad alta voce per sentirne tutta la musicalità e fluidità, soprattutto rispettando gli accapo; così, capiremo se quell’accapo andava proprio lì o se quel segno di interpunzione è corretto in quella posizione, o se quel verso va bene o va modificato. La poesia è ribelle alle regole della prosa e della sintassi in genere, ribelle anche ai segni d’interpunzione, le pause della poesia non sono le pause della prosa; in poesia ogni singola parola deve essere considerata in relazione al ritmo e alla sonorità nel verso, ogni parola non è soltanto significato ma soprattutto significante: il suono, il segno grafico, l’emozione in cui ci trasporta la poesia.

Scrivo ancora nella prefazione alla raccolta Per una strada:

 

«La poesia non bisogna semplicemente leggerla, ma sentirla, ascoltarla; non nel senso di ascoltare una recita, ma leggerla con il cuore, interiorizzarla, farla propria, renderla partecipe delle proprie emozioni.

Le sue interpretazioni non si esauriscono in una sola, non sarebbe più poesia, ma della prosa travestita di versi con degli “a capo” dati a caso.

Non è necessaria la metrica e la rima per fare poesia, ma basta un certo accostamento di parole, di frasi e di suoni, aperti alle molteplici interpretazioni; bisogna anche che il poeta metta del suo, anche se in maniera trasfigurata. Il difficile è saper disporre il tutto in una maniera tale per far sì che, chi legga o ne ascolti una recita, senta la poesia.»[17]

 

La poesia è la più profonda forma di comunicazione verbale mai creata dall’uomo per esprimere i più reconditi sentimenti umani, le più profonde emozioni; la poesia riesce a portare allo scoperto l’anima, come scrivo in “Sé e gli altri”, riesce a portare allo scoperto “l’obliato proprio sé fanciullo”[18]. La poesia è anima che si fa parola, la poesia riesce a far conoscere se stessi, riesce ad interrogarci, riesce a farci riflettere, riesce ad emozionarci, riesce a rendere l’ordinario straordinario, fa sì che l’oggi non si perpetui nello ieri e, in qualche maniera, contribuisce a migliorarci, a renderci più sensibili nei confronti degli altri. La poesia, infatti, è piacere per gli occhi e per il cuore, qualcosa che ci meraviglia e ci colma d’interesse, che ci spinge a ricercar nuovi lidi dove far approdare questo nostro inquieto nocchiero che è il nostro cuore.

La poesia si nutre di sogni e il poeta non è solo un cultore di sogni ma, sogna, si emoziona e si meraviglia lui stesso; spesso vorrebbe perdersi in quei sogni, ma deve ritornare alla realtà, alla dura realtà che usa come filtro e come ancora per non annegare. La poesia si nutre anche di musicalità, di armonia tra le parole, senza necessariamente fare uso di metrica quantitativa o di rima. D’altra parte, quella che non deve mancare è una metrica qualitativa (cadenza, ritmo, figure di suono, di significato, etc.)

Come ho scritto sopra, la narrativa e la prosa in genere, preferisco leggerla e non scriverla, tuttavia, anche nella prosa possiamo trovare poesia, anzi, la poesia, nella sua accezione più ampia, non è specificatamente legata ai versi ma all’arte in genere, quindi, anche alla musica, sia classica che leggera; la poesia è ciò che si avvicina di più alla musica. Cito un altro mio aforisma:

 

«Penso che la musica sia la forma di espressione umana più alta e superiore a tutte le arti, anche alla poesia. Grazie alla musica, nella sua grandezza e profondità, possiamo arrivare persino ad intuire l’universo.»[19]

 

Ovviamente, mi riferisco alla musica, nella sua grandezza e profondità, non certo a musica da semplice intrattenimento, e cito ancora dalla prefazione a Per una strada:

 

«La poesia è la forma verbale più profonda che possa esistere, per esprimere i più reconditi sentimenti umani.

Se invece vogliamo parlare di espressione umana in senso generale, la musica per me supera tutte le arti, a patto che sia musica con la “M” maiuscola.

Ecco perché musicare una poesia è qualcosa che supera ogni immaginazione.»[20]

 

Quanta poesia possiamo ascoltare ad esempio in una canzone di Battisti come “I giardini di marzo” o in un’Opera di Puccini, o in un notturno di Chopin, o quanta poesia possiamo ammirare ad esempio nella Gioconda di Leonardo o nella Pietà di Michelangelo.

La poesia non è mera imitazione della realtà, non è sua fredda riproposizione, essa deve avere sempre un senso universale e utilizzare volgarità, turpiloquio in una poesia, prima di tutto è illogico perché è quanto di più particolare e ordinario possa esserci, poi è di cattivo gusto e denota poca creatività per esprimere rabbia e quant’altro. La poesia è “rappresentazione”, nel senso di interpretazione soggettiva della realtà e, quindi, nel senso di sua ri-creazione e trasfigurazione.

Non si potrà mai dare una definizione definitiva di poesia ma solo innumerevoli interpretazioni, lo stesso verbo “definire” vuole tracciare dei confini ma la poesia non ha confini, il suo spirito vivrà sempre e la sua voce cavalcherà i millenni. E un poeta non è mai mero cronista di ciò che attentamente osserva, non è mai impersonale messaggero bensì è interprete soggettivo, che ri-crea, trasforma, trasfigura sogni, storie, emozioni.

E, come scrivo in un altro aforisma:

 

«Un poeta non deve mai lasciarsi condizionare dal marketing, dal consumismo o dalle mode del tempo, la sua ispirazione non sarebbe più spontanea e sincera, deve bensì lasciar parlare la propria anima, senza alcun condizionamento.»[21]

 

Quindi, nessuno può dirmi di scrivere un romanzo perché così ci sarebbero più lettori, mancherebbe però la cosa più importante: l’ispirazione.

 

 

Emanuele Marcuccio

 

Palermo, 24 marzo 2018

 

Bibliografia

 

AA.VV., L’arrivista. Quaderni democratici (anno I, Nr. 3), Limina Mentis, Villasanta, 2011.

AA.VV., Rassegna Storiografica Decennale. IV, Limina Mentis, Villasanta, 2018.

Domenighini, Luciano, Metrica spontanea e raffinata in «Per una strada» di Emanuele Marcuccio, “drive.google.com”, 2015, www.drive.google.com/open?id=1xRMgnlsHVaiJo1_xX-AGbtr48ipWqJfS (PDF)

Marcuccio, Emanuele, Per una strada, SBC, Ravenna, 2009.

Marcuccio, Emanuele, Pensieri Minimi e Massime, Photocity, Pozzuoli, 2012.

Marcuccio, Emanuele, Anima di Poesia, TraccePerLaMeta, Sesto Calende, 2014.

 

[1] La presenta nota sul mio fare e intendere poesia, avviata nel 1999, aveva dapprima il titolo di “La mia poetica”, la quale negli anni ho ampliato e aggiornato fino ad assumere l’attuale forma e titolo. [N.d.A.]

[2] Emanuele Marcuccio, Per una strada, SBC, Ravenna, 2009, pp. 100.

[3] Ivi, p. 60.

[4] Ivi, p. 96.

[5] Luciano Domenighini, Emanuele Marcuccio, Per una strada, in AA.VV., L’arrivista. Quaderni democratici (anno I, Nr. 3), Limina Mentis, Villasanta, 2011, pp. 126-127.

[6] Id., Metrica spontanea e raffinata in «Per una strada» di Emanuele Marcuccio, 2015, pp. 51, “drive.google.com”, www.drive.google.com/open?id=1xRMgnlsHVaiJo1_xX-AGbtr48ipWqJfS (PDF)

[7] Emanuele Marcuccio, Op. cit., pp. 52-53.

[8] Ivi, p. 77.

[9] Ivi, p. 10.

[10] Id., Anima di Poesia, TraccePerLaMeta, Sesto Calende, 2014, p. 28.

[11] Ivi, p. 30.

[12] Luciano Domenighini, La poesia del 2013 e quella giovanile: un confronto, in Emanuele Marcuccio, Op. cit., pp. 49-54.

[13] Lucia Bonanni, L’Anima di Poesia di Emanuele Marcuccio, dolce poeta. Lettura del suo mondo poetico, partendo dall’analisi della silloge, Anima di Poesia, in AA.VV., Rassegna Storiografica Decennale. IV, Limina Mentis, Villasanta, 2018, pp. 83-84.

[14] Emanuele Marcuccio, Per una strada, SBC, Ravenna, 2009, p. 46.

[15] Luciano Domenighini, PDF cit., p. 32.

[16] L’opera è uscita il ventotto agosto 2017: Emanuele Marcuccio, Ingólf Arnarson - Dramma epico in versi liberi. Un Prologo e cinque atti, Prefazione di Lorenzo Spurio, Postfazione di Lucia Bonanni, con una Nota storica di Marcello Meli, Quarta di copertina di Francesca Luzzio, Le Mezzelane, Santa Maria Nuova, 2017, pp. 188. [N.d.C.]

[17] Emanuele Marcuccio, Per una strada, SBC, Ravenna, 2009, pp. 9-10.

[18] Ivi, v. 7, p. 68.

[19] Id., Pensieri Minimi e Massime, Photocity, Pozzuoli, 2012, n. 36, p. 13.

[20] Id., Per una strada, SBC, Ravenna, 2009, p. 9.

[21] Id., Pensieri Minimi e Massime, Photocity, Pozzuoli, 2012, n. 25, p. 11.

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